Biografia
Federico Caffè, nato a Pescara il 6.1.1914, si è laureato con lode in Scienze Economiche e Commerciali presso l’Università di Roma nel 1936.
Assistente volontario alla cattedra di Politica economica e finanziaria dal 1939, nell’anno accademico 1946/47 ha vinto una borsa di studio per un soggiorno presso la London School of Economics.
Libero docente di politica economica e finanziaria nel 1949 nello stesso anno è stato nominato assistente incaricato alla cattedra di Scienza delle Finanze di cui era titolare G. Del Vecchio.
Vincitore nel 1954 del primo concorso a cattedra di Politica economica e finanziaria tenutosi dopo la fine della guerra, è stato professore straordinario della stessa disciplina a Messina passando poi all’insegnamento di Economia politica a Bologna ed infine è stato chiamato a Roma nel 1959 come professore ordinario di Politica economica e finanziaria presso la facoltà di Economia e Commercio.
Nel 1984 gli è stato conferito il diploma di prima classe, con medaglia d’oro, per i benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte Dal 1970 è stato socio corrispondente dell’Accademia nazionale dei Lincei ed è divenuto socio nazionale nel 1986.
Alla sua lunga e intensa carriera universitaria si è affiancata un’altrettanto lunga e prestigiosa carriera pubblica che lo vide per un breve periodo capo di gabinetto del Ministro della Ricostruzione Meuccio Ruini nel Governo Parri. Non meno rilevanti sono stati gli incarichi che gli vennero affidati come funzionario del Servizio Studi della Banca d’Italia dove venne assunto nel 1937. Nel 1954, con la sua nomina a professore straordinario, si concluse il rapporto di lavoro e venne nominato consulente del Governatore della Banca d’Italia, incarico che mantenne sino al 1969. Inoltre dalla data della sua istituzione nel 1965 e sino al 1975 ha diretto l’Ente Einaudi per gli studi monetari bancari e finanziari.
Ha curato con grande erudizione e gusto filologico la raccolta di opere di F. Ferrara, di F. S. Nitti e di L. Einaudi nonché significative raccolte di saggi di autori italiani e stranieri. La sua dedizione all’Università e gli incarichi ricevuti non lo hanno mai allontanato da un impegno civile che lo ha visto antifascista negli anni della guerra, a contatto con le forze democratico-liberali e azioniste nel dopoguerra, vicino al riformismo cattolico di Cronache Sociali di Dossetti all’inizio degli anni ’50 e infine vigile e critico consigliere del sindacato unitario.
Era piccolo di statura, riservato, mite ma capace di terribili sfuriate, lettore instancabile, amante della musica, erudito, storico del pensiero economico italiano.
Federico Caffè è scomparso nella notte fra il 14 ed il 15 aprile 1987.
Autore di oltre 200 pubblicazioni, fra le quali si segnalano le seguenti:
– Vecchi e nuovi indirizzi nelle indagini sull’economia del benessere, Tecnica Grafica, Roma, 1953;
– Saggi critici di economia, De Luca, Roma, 1958;
– Politica economica – Sistematica e tecniche di analisi (2 voll.) Boringhieri, Torino, 1966;
– Teorie e problemi della politica sociale, Laterza, Bari, 1970;
– Un’economia in ritardo, Boringhieri, Torino, 1976;
– Lezioni di Politica Economica, Boringhieri, Torino, 1980;
– L’economia contemporanea, Edizioni Studium, Roma, 1981;
– In difesa del Welfare State, Rosenberg & Sellier, Torino, 1986
La scomparsa
In quella notte tra il 14 aprile e il 15 aprile 1987 in cui uscì in punta di piedi dalla sua casa romana di via Cadiolo 42, a Monte Mario e fece perdere ogni traccia, Federico Caffè aveva 73 anni. Era uno dei massimi economisti italiani, ex docente di Politica economica, keynesiano da sempre, battagliero propugnatore di un’economia basata sul rispetto della solidarietà umana. Il giallo della sua scomparsa iniziò a un’ora imprecisata ma avvenne all’insegna dell’ordine e della disciplina che aveva caratterizzato tutta la sua vita: indossò pantaloni grigi, giacca scura e leggero soprabito blu, tipico di certe nottate primaverili romane rinfrescate dal venticello; sul tavolo lasciò in bella vista orologio, passaporto, libretto degli assegni, portafoglio, chiavi di casa. Poi si chiuse alle spalle la porta di quella stanzetta ammobiliata dell’indispensabile, senza alcun cenno di civetteria, senza neppure quadri o arazzi alle pareti, al di fuori della riproduzione di un crocefisso di Giotto. E scivolò all’esterno come un’ombra, senza che nessuno lo notasse. C’erano i netturbini ad affaccendarsi per le strade, una nuova alba si preparava a sorgere su Roma. Solo intorno alle sette il fratello Alfonso notò il letto vuoto, mai pensando che da quel 15 aprile lo sarebbe rimasto per sempre.
Amici e conoscenti li chiamavano “i due Caffè” con l’affetto e la simpatia che si può avere per due fratelli che sin da giovani avevano deciso di non sposarsi, vivendo sotto lo stesso tetto e dividendo per decenni, abitudini, discussioni, progetti. Una sorella che viveva a Pescara, e i loro nipoti più volte avevano insistito affinché si trasferissero sull’Adriatico o quantomeno andassero a trascorrere molti dei loro mesi al mare. D’altronde Federico Caffè non aveva più i suoi impegni fissi all’Università. E anche Alfonso Caffè aveva lasciato l’ Istituto “Massimo” dei gesuiti dov’era stato professore di lettere. Ma i due non riuscivano a immaginarsi lontani da Roma. Ed erano rimasti nella capitale nonostante continuassero a fare una vita molto appartata, alla larga dai rumori e dalle lusinghe mondane della grande metropoli. Insieme avevano visto morire l’ormai anzianissima madre. Insieme avevano accompagnato all’ultima dimora anche la tenera tata Giulia, che da lungo tempo aveva consolidato il suo ruolo di fiduciaria di famiglia. Logico pensare che “i due Caffè”, persone distinte e perbene, si sarebbero fatti compagnia sino alla fine dei loro giorni. Invece, quel 15 aprile del 1987, ecco quel letto vuoto. Ecco “il caso Caffè”.
“Era lucidissimo, ma chiaramente in preda alla depressione”, disse qualcuno. Per il Professore la lontananza dalle aule universitarie, insomma la tanto sospirata pensione non era diventata “l’agognato riposo di una vita di lavoro” ma era vissuta quasi come un esilio. Ad aggravare certi suoi stati d’animo la tragica perdita in un paio d’anni di tre discepoli-Doc. Non c’era conoscente il quale non sapesse sino a che punto Federico Caffè avesse sofferto e pianto nel 1985 davanti alla bara di Ezio Tarantelli, massacrato dalle Brigate Rosse. E non c’era amico il quale non avesse raccolto la sua angoscia davanti al destino che aveva troncato la vita di Fausto Vicarelli in un incidente stradale e di Franco Franciosi in un lettino d’ospedale, ucciso dal cancro. Ed erano tre discepoli i quali stravedevano per la sensibilità, la preparazione e la cultura del Professore. E il Professore li ripagava con uguale stima e amore. Ma il sentirsi sempre più solo,con quel suo unico fratello che adorava e da cui era adorato, poteva valere quella scomparsa all’improvviso? Chi però avrebbe potuto dirsi sicuro che la decisione fosse davvero maturata senza che nulla la preannunciasse?
Qualche girono dopo si scoprì che Federico Caffè aveva addirittura riversato un suo conto in banca su quello del fratello Alfonso. E non mancò neppure chi ricordò d’avere incontrato l’economista durante la settimana. E poichè il discorso era caduto sul suicidio dello scrittore Primo Levi, Caffè se ne sarebbe uscito con questa frase: “Che gran brutta maniera di uccidersi. Che spettacolo straziante farsi trovare così dai parenti”. Un indizio da far sospettare che già allora anche l’economista pensasse al suicidio, ma in un modo meno clamoroso e meno pubblico di quanto avesse fatto Levi? Riuscire comunque a scomparire quatto quatto non poteva che alimentare ipotesi e congetture. E poiché non c’era neppure un cadavere, il “caso Caffè” entrava di diritto tra “i misteri d’Italia”.